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Il pane di Papa Francesco: quando la cucina è carezza, memoria e compassione

C’è un silenzio che parla più di mille parole. È quello che si crea davanti a un piatto caldo, servito con amore, in una cucina povera ma vera. È in quel silenzio che ritrovo spesso il pensiero di Papa Francesco, un uomo che ha fatto della semplicità una forma di rivoluzione. E della tavola, un altare di umanità.

Sono cresciuto con il profumo del sugo della domenica, dei pomodori messi a seccare al sole e delle mani che impastano con pazienza. Francesco “ Jorge Mario Bergoglio “ viene da un mondo non così diverso dal mio: l’Argentina delle periferie, le nonne italiane, le ricette tramandate a voce bassa, come preghiere. Sua nonna Rosa, piemontese, era la sua maestra di vita. Ed è da lei che ha imparato che cucinare è prendersi cura, prima ancora che nutrire.

Lo ha raccontato più volte, Papa Francesco. Come quel 29 del mese, quando si preparavano gli gnocchi, piatto povero, sì, ma ricco di significato. Si mangiavano insieme, lasciando sotto il piatto una banconota o una moneta, come augurio di prosperità. Un gesto che oggi risuona come una benedizione laica: la condivisione come atto rivoluzionario.

Ma Francesco non è un Papa che parla di cibo in termini di gusto o lusso. Lo fa in un modo diverso, più profondo. Il cibo, per lui, è giustizia. È dignità. È rispetto per la terra e per chi la lavora. È indignazione contro lo spreco, contro l’indifferenza, contro quell’“economia dello scarto” che distrugge più di quanto nutra.

Nel 2015, nella sua enciclica Laudato si’, ha scritto parole che sembrano uscite dalla bocca di un contadino o di uno chef coscienzioso: “La terra, nostra casa comune, grida per il male che le stiamo facendo”. Parole che raccontano un pensiero che non ha nulla di astratto. È un pensiero che tocca il pane quotidiano, la stagionalità degli ingredienti, la filiera corta, la responsabilità di chi produce e di chi consuma.

Ricordo ancora le immagini del pranzo servito in Aula Paolo VI durante la Giornata Mondiale dei Poveri. File ordinate di tavole imbandite con semplicità, dove i poveri sedevano accanto a volontari e religiosi. Nessuna distinzione. Nessuna gerarchia. Solo esseri umani che spezzano il pane insieme. In quei gesti, c’è più vangelo che in mille omelie.

Francesco non ama parlare dei suoi gusti, eppure ogni tanto lascia trapelare qualcosa. Le empanadas della sua Buenos Aires. Il mate sorseggiato con gli amici. Un piatto di pasta cucinato da qualche suora in Vaticano. Non servono piatti firmati o cucine stellate per commuovere. Basta una forchetta di verità, di memoria, di cura.

Nell’epoca della spettacolarizzazione del cibo, Papa Francesco ci ricorda che la tavola è ancora un luogo sacro. Non perché ci si inginocchi, ma perché ci si guarda negli occhi. Perché ci si riconosce. Perché si impara, ancora una volta, a dire grazie.

E allora forse dovremmo tornare a quella cucina che consola. Quella che non si misura in tecniche ma in attenzioni. Quella che non pretende applausi, ma lascia un segno. Perché, come dice Francesco, “un pasto condiviso è più di un nutrimento: è un gesto d’amore, è un atto di fraternità, è il primo passo verso un mondo più giusto”.

E in quel gesto, anche noi “ cuochi, critici, appassionati, contadini o semplici mangiatori “ possiamo trovare il senso più profondo del nostro lavoro. E, forse, anche della nostra fede.

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